Piero della francesca
Piero della Francesca fu l’artista che, nella seconda metà del XVI secolo, maggiormente contribuì al perfezionamento della prospettiva nel campo della pittura, cercando al contempo le basi matematiche della bellezza. Tutta la sua opera può infatti essere considerata una ricerca delle giuste relazioni matematiche e geometriche per definire sia la corretta rappresentazione spaziale, sia la perfezione delle forme rappresentate.
Ma in Piero non è solo la prospettiva a connotare la sua opera. Vi è una sorta di matrice geometrica che egli applica sempre a qualsiasi forma che egli dipinga. In pratica è come se riducesse ogni forma della realtà a solidi geometrici di forme regolari: coni, sfere, cilindri, cubi, parallelepipedi, ecc.
Questi aspetti teorici di Piero sono anche testimoniati da due libri che egli scrisse nella maturità: De prospectiva pingendi e Libellus de quinque corporibus regularibus, tesi a dimostrare come ogni aspetto della realtà visibile risponda ad un rigoroso ordine matematico, ordine che è rivelazione della suprema armonia del creato.
Ciò avviene anche quando rappresenta il corpo umano, e questa «interpretazione» geometrica del corpo viene accentuata dalla estrema levigatezza con la quale dipinge le epidermidi. In pratica i corpi di Piero sono l’opposto di quanto in seguito realizzerà Michelangelo. In quest’ultimo il corpo e la pelle si deformano per far apparire tutta l’anatomia muscolare che governa la struttura interiore dei corpi; Piero della Francesca ignora completamente l’interno del corpo, quasi fosse composto da un materiale unico ed omogeneo, per concentrarsi solo sull’aspetto esteriore di esso pensato come insieme di solidi geometrici e non come il risultato di una meccanica interiore. Il risultato non è sempre realistico, ma altamente poetico: è l’ideale di una bellezza che, nella sua perfezione, ci dà le misure esatte dell’ideale estetico di quel tempo.
Il percorso artistico di Piero si mosse tra Firenze, Arezzo (dove realizzò uno dei suoi capolavori: «La leggenda della Vera Croce»), Ferrara e Urbino, dove fu chiamato ad operare da Federico di Montefeltro. Nella cittadina marchigiana, dove aveva sede in quegli anni una delle maggiori corti italiane, Piero venne a contatto con altri artisti europei, tra i quali il fiammingo Giusto di Gand. Questo contatto gli diede l’occasione di approfondire la conoscenza della luce e della sua rappresentazione pittorica. Ma l’interesse per gli aspetti «sensibili» non riuscirono a superare quelli per gli aspetti intellettuali della visione, come ci testimoniano alcuni dei suoi maggiori capolavori, quali la «Flagellazione di Urbino» o la «Pala di Brera».
Ma in Piero non è solo la prospettiva a connotare la sua opera. Vi è una sorta di matrice geometrica che egli applica sempre a qualsiasi forma che egli dipinga. In pratica è come se riducesse ogni forma della realtà a solidi geometrici di forme regolari: coni, sfere, cilindri, cubi, parallelepipedi, ecc.
Questi aspetti teorici di Piero sono anche testimoniati da due libri che egli scrisse nella maturità: De prospectiva pingendi e Libellus de quinque corporibus regularibus, tesi a dimostrare come ogni aspetto della realtà visibile risponda ad un rigoroso ordine matematico, ordine che è rivelazione della suprema armonia del creato.
Ciò avviene anche quando rappresenta il corpo umano, e questa «interpretazione» geometrica del corpo viene accentuata dalla estrema levigatezza con la quale dipinge le epidermidi. In pratica i corpi di Piero sono l’opposto di quanto in seguito realizzerà Michelangelo. In quest’ultimo il corpo e la pelle si deformano per far apparire tutta l’anatomia muscolare che governa la struttura interiore dei corpi; Piero della Francesca ignora completamente l’interno del corpo, quasi fosse composto da un materiale unico ed omogeneo, per concentrarsi solo sull’aspetto esteriore di esso pensato come insieme di solidi geometrici e non come il risultato di una meccanica interiore. Il risultato non è sempre realistico, ma altamente poetico: è l’ideale di una bellezza che, nella sua perfezione, ci dà le misure esatte dell’ideale estetico di quel tempo.
Il percorso artistico di Piero si mosse tra Firenze, Arezzo (dove realizzò uno dei suoi capolavori: «La leggenda della Vera Croce»), Ferrara e Urbino, dove fu chiamato ad operare da Federico di Montefeltro. Nella cittadina marchigiana, dove aveva sede in quegli anni una delle maggiori corti italiane, Piero venne a contatto con altri artisti europei, tra i quali il fiammingo Giusto di Gand. Questo contatto gli diede l’occasione di approfondire la conoscenza della luce e della sua rappresentazione pittorica. Ma l’interesse per gli aspetti «sensibili» non riuscirono a superare quelli per gli aspetti intellettuali della visione, come ci testimoniano alcuni dei suoi maggiori capolavori, quali la «Flagellazione di Urbino» o la «Pala di Brera».